Molti lo conoscono per la sua apparizione in televisione di qualche anno fa, nel programma condotto dagli chef Cristiano Tomei e Gennaro Esposito, “Cuochi d’Italia”. Francesco Bianchi, comasco trapiantato nel nordest, è noto per il suo fare istrionico e la capacità di entrare subito in sintonia con i commensali.
Ci accoglie con la sua voce squillante nella Locanda Torre, aperta da qualche anno insieme al sommelier Roberto Corato a Torreselle, Isola Vicentina. Una zona incantevole, tra le colline che separano la valle dell’Agno dalla pianura pedemontana.
La struttura è un vecchio stabile agricolo ristrutturato in maniera elegante e ariosa. I soffitti sono mansardati, grande la presenza di bianco alle pareti, con qualche tocco ottanio. Ampie le vetrate che danno su una sorta di corte, che a sua volta dà sul panorama sottostante. Sono presenti delle vele che fungono da riparo ombreggiato per i divani da esterno, sistemati qua e là nei quali sorseggiare un cocktail a qualsiasi ora, data la possibilità di soggiornare nelle stanze a disposizione degli ospiti.
Il servizio
A differenza di altre recensioni, questa sezione – come vedrete – sarà particolarmente rilevante. Nonostante la livrea nera dei camerieri e l’auricolare da bodyguard per tutto il personale, il servizio non è affatto imbacchettato. Il che non è un male, anzi.
Francesco, in precedenza chef della Taverna Clara a Lastebasse, al confine con il Trentino, qui veste il ruolo di un eccentrico caposala. È un attore nato, capace di far ridere una tavolata intera con un colpo di sopracciglio, probabilmente retaggio della sua vita precedente prima che si occupasse di ristorazione.
Il carisma non gli manca di certo e i commensali pendono dalle sue labbra mentre espone, con un monologo ben studiato, i piatti del menù. Francesco ha le movenze di un prestigiatore, o di un artista di strada, la voce squillante che arriva a tutti in maniera cristallina. La spiegazione dei piatti è studiata con grande cura, parola per parola, gesto per gesto: si tratta di storytelling alla massima potenza, dove ogni ingrediente viene esaltato da roboanti aggettivi, e la cui provenienza viene evidenziata quale sinonimo di qualità. Così il mascarpone non è “del” mascarpone, ma “quel” mascarpone di tal paesello, il manzo è di “quel” particolare tipo e così via.
Questa narrazione così approfondita e ben interpretata ha uno scopo preciso, ovvero preparare i commensali alla percezione di ciò che verrà dopo. La sensazione è che ciò che ci aspetta sarà qualcosa di prezioso, ricercato, sensazione che rimane incollata addosso pur non avendo ancora visto il piatto.
È una scelta vincente.
L’altro titolare, Roberto Corato, si occupa invece della cantina, con un’ottima selezione di vini, in particolare locali. In un caso avevamo scelto l’ultima bottiglia disponibile, sostituita subito dopo l’apertura da Roberto di sua iniziativa e senza battere ciglio, in quanto sapeva di tappo. Cosa sacrosanta, ma non scontata: capita a volte che prima si faccia comunque assaggiare il vino, dato che non tutti sanno percepire il “tappo”, e il sommelier si affretti a sostituire la bottiglia solo se avverte qualche titubanza nel cliente.
Non è stato questo il caso, anzi. Roberto l’ha sostituito immediatamente prima ancora che potessimo annusarla, e l’ha fatto con una bottiglia realizzata con lo stesso vitigno e di prezzo superiore, ma mettendola in conto al prezzo della prima. Non è da tutti.
Per dovere di cronaca, le nostre recensioni si svolgono senza alcun avviso preventivo ai ristoratori, che lo scoprono solo alla fine.
Pertanto, chapeau.
Il menù
L’ispirazione trentina percorre tutto il menù. Abbonda lo speck, ci sono gli spätzle, gli schlutzkrapfen, il cavolo rosso marinato con aceto e cumino, i formaggi di montagna. Sapori che non sono affatto estranei alla zona, terra di insediamento cimbra (no, non i cimbri dell’antichità citati da Tacito, ma i coloni bavaresi chiamati dal vescovo di Trento a popolare le zone disabitate delle Piccole Dolomiti e dei Lessini, nel medioevo).
In generale abbonda l’uso della cottura in bassa temperatura. Valido anche il lavoro sulle consistenze, soprattutto le salse abbinate ai secondi, l’accoppiata gnocchi/canederli e le carni.
D’iniziativa di Francesco arrivano immediatamente un paio di taglieri di affettati e formaggi, accompagnati dal benvenuto della cucina, un bignè salato con una leggera farcitura al formaggio, in modo da avere subito qualcosa da mettere sotto i denti.
I primi
Passando ai primi, degne di nota le tagliatelle al ragù bianco «con tutti gli animali del cortile, tranne cane e gatto», ironizza francesco, ammiccando. Ottima la pasta, ben tirata e a cottura perfetta. Ragù sapido il giusto e ben bilanciato. Piuttosto generosa la quantità di burro che rimane sul fondo del piatto, un po’ meno avrebbe giovato.
Delicatissimi gli gnocchetti di malga e ricotta affumicata. Ottima in particolare la consistenza, soffice e leggera, rimandano per certi versi ai classici gnocchi con la fioreta tipici della zona. Davvero piacevoli e molto delicati.
Piu intensi i canederli, della grana giusta, né troppo grossa né troppo fine. Così come la consistenza, cedevole ma non troppo. Molto apprezzato l’equilibrio perfetto tra lo speck e la lieve presenza della cipolla.
Anche gli schlutzkrapfen hanno riscosso molti apprezzamenti. Sono una sorta di ravioloni a mezzaluna tipici del Tirolo (simili ai pirogi dell’est Europa) e la sfoglia è realizzata con farina di segale. Cosa che dona un sapore particolare alla pasta di per sé, che quindi non è solo un contenitore neutro del ripieno, quanto piuttosto una parte importante del risultato finale percepito all’assaggio. Il ripieno è il classico “di magro”, a base di ricotta e verdure a foglia verde e la grana è perfetta. Ottimo anche il contrasto tra la morbidezza della pasta ripiena con la croccantezza dello speck che la cosparge.
Secondi
La cartucciera (all’incirca mezza baffa di costine di maiale) è tecnicamente impeccabile. Trimmata a dovere, ha un rapporto tra grasso e magro perfetto. Assente, giustamente, la pleura, cosa niente affatto scontata da queste parti. Il bite è da manuale, segno di una cottura eseguita con tempi e temperature corrette. A tal proposito, molto probabilmente è stata prima passata nel roner e poi finita in forno. Eventuali rub, al di là del sale (ben dosato) e al massimo un po’ di pepe, non percepiti.
Il risultato è una costina godibilissima, molto basica nei sapori e per questo piacevole per tutti. Sarebbe bastato un minuscolo passaggio nel fumo di brace (prima della CBT, però, non in finitura) per avere qualcosa di davvero straordinario. La senape al miele in abbinata è ottima, da usare con parsimonia per non inficiare il sapore della carne, che in confronto appare addirittura delicato.
Appena arrivata al tavolo (purtroppo con un discreto ritardo rispetto agli altri piatti, ma si trattava di una giornata da sold out) la picanha ha fatto sollevare qualche sopracciglio. Viene servita, infatti, su una piastra dalla temperatura molto elevata, elemento in genere non particolarmente amato dai cultori della carne. Il rischio, infatti, è di proseguire la frittura della carne nel suo grasso (abbondante, trattandosi proprio di picanha). La paura di trovarsi a che fare con una carne che piano piano va in overcooking è però scongiurata: nonostante l’intoppo con le tempistiche, in cucina sono stati bravi a calcolare correttamente l’inerzia termica del servizio scelto, e la carne è stata godibilissima fino alla fine. Tenera come un burro, si è sposata alla perfezione con il cavolo rosso al cumino di contorno, ottimo per sgrassare la bocca con la sua freschezza.
A far sobbalzare il cuore è però il petto d’anatra: la cottura in bassa temperatura e la finitura in piastra regalano un’esperienza sublime. La Maillard è da manuale. Ottimo il trimming della copertina di grasso, presente in quantità non esagerata, che protegge una carne che sorprende per la tenerezza e la succositá. Il grado di cottura è un equilibrismo perfetto, appena rosata e al contempo scioglievole. Se proprio bisogna trovare un difetto, forse una speziatura meno spinta sarebbe stata più gradevole, ma si tratta davvero di cercare il pelo sull’uovo. Ottime anche le salsine di accompagnamento, una ai frutti rossi e una ai frutti gialli: sono abbinamenti consolidati con l’anatra, impossibile sbagliare.
Il conto
Otto i coperti, due taglieri di antipasto e per tutti benvenuto della cucina, primo, secondo e caffè. Tre i vini: un delizioso Trento doc rosé, il già citato pinot nero sostituito e una bottiglia di marzemino passito (una coccola favolosa come fine pasto), per un totale a persona di 44 euro.
Considerando l’ambiente di livello, il servizio che nulla ha da invidiare a uno spettacolo teatrale, il vino e soprattutto il livello della cucina e le porzioni assolutamente adeguate, si tratta di un esborso equilibrato, né eccessivo né basso. In una parola, il giusto.
Verdetto della nostra recensione della Locanda Torre
La cura che Francesco mette nel far sentire a proprio agio gli ospiti e la narrazione che crea per ogni piatto rendono tutto più appagante. Roberto è un sommelier più tradizionale, posato, ma competente e affabile, capace con il suo aplomb di garantire una scelta adeguata dei vini.
La domanda da porsi, quindi, è: ne vale la pena? La risposta e senza dubbio positiva. Alla Locanda Torre si può vivere un’esperienza che trascende il mero consumo delle pietanze: dall’atmosfera al servizio si gode di un plus che spesso viene messo in secondo piano quando si valuta un locale.
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