Chiesetta del Muccion, dove la tradizione vicentina incontra la raffinatezza francese

Il Muccion è un rilievo inconfondibile dello skyline che contraddistingue le colline tra Schio e Valdagno. Li, dove passa il confine tra i due comuni, si trova un ristorante molto particolare, la Chiesetta del Muccion. È gestito da due giovanissimi, Filippo e Alessandra Rossato. Lei con una solida esperienza in sala costruita in uno dei più importanti stellati del Cadore, Il capriolo. Lui che si è fatto le ossa a Parigi, fino a diventare chef del Prince de Galles, sugli Champs Élysées.

L’atmosfera e il servizio

Il ristorante è diviso in due stanze: quella principale per le compagnie più numerose e la saletta ottanio per un’esperienza più intima. I dettagli sono curati, gli accostamenti di colore ben studiati e tutto trasuda attenzione al dettaglio. Il servizio è cortese, educato e propenso a illustrare i piatti ai commensali, non senza una meritata punta di orgoglio. Mettete in preventivo qualche ora: il tempo tra una portata e l’altra è piuttosto lungo.

Il menù

La parola chiave è contaminazione: gli ingredienti della cucina nostrana vengono trattati con cura maniacale ed esaltati dalle raffinate tecniche della cucina francese, il tutto in un’atmosfera curata e piacevole.

Troviamo tipici ingredienti veneti come le quaglie, il baccalà, il radicchio, lo scopetòn ma anche le escargot, il rognone e il limone marocchino che richiamano la Francia, così come i passatelli e il lampredotto portano influenze da fuori regione. Ne risulta un menù ben composto e innovativo, di carne e di pesce, con qualche proposta vegetariana. 

La carta dei vini è ben strutturata, con una buona proposta di cantine locali, in particolare della valle dell’Agno, della zona di Breganze e dell’ovest vicentino. Non manca una generosa selezione di vini francesi, in particolare champagne.

La nostra esperienza

Come specificato in precedenza, non è un locale in cui avere fretta. Purtroppo questa lunga attesa non è alleggerita da alcun amuse-bouche o benvenuto della cucina, pertanto non resta che aspettare gli antipasti sorseggiando vino e sbocconcellando del normale pane.

Il primo antipasto che abbiamo ordinato è un millefoglie di baccalà mantecato, chips di polenta nera e scorzette di limone candite. La presentazione è d’impatto, ariosa, tridimensionale. L’esecuzione è impeccabile, il baccalà avvolgente e contrasta alla perfezione con la croccantezza delle chips di polenta. Il tocco del limone candito dona una lieve pungenza senza essere invasivo, è davvero molto piacevole.

Il secondo antipasto è composto da coscette di quaglia ripiene di fegatini e radice di scorzonera con crema di cipolla bruciata, pesto di prezzemolo e marmellata di mele, limone e zenzero. Si nota che le cosce di quaglia sono assemblate a lollipop, quindi recidendo il tendine dalla parte della caviglia e utilizzando il muscolo battuto per avvolgere una dadolata di fegatini. Il tutto è poi impanato e fritto, servito appoggiato sulla composta di mele. Deliziose è dire poco: la tenerezza dei fegatini contrasta con la croccantezza della panatura, mentre la composta dona un sentore dolce e lievemente agrumato che ben si sposa con la carne delicata della quaglia. Peccato che siano solamente due e – com’è ovvio – molto minute, giusto un minuscolo bocconcino. La radice di scorzonera è in purezza, la consistenza soda ma non croccante. Purtroppo il pesto di prezzemolo e la crema di cipolla bruciata un poco si perdono, ne risulta un piatto è un po’ sbilanciato: da una parte le cosce di quaglia, squisite e al limite della lussuria, dall’altra la scorzonera, nel complesso un poco scialba. Beninteso, rimane un piatto fenomenale ed eseguito magistralmente, peccato per la quantità più da finger food che da antipasto.

Altra lunga attesa e arrivano i primi. 

Partiamo con il risotto mantecato al morlacco, crema di radicchio di Treviso, petto di quaglia con il suo fondo. Il riso (un ottimo vialone nano) è all’onda come vuole la tradizione, leggermente al dente, adagiato su una crema di radicchio equilibrata, quasi dolce, segno di una materia prima di grande qualità. Il pezzo forte è il petto di quaglia: la presenza del suo squisito fondo ma la contemporanea rosatura interna della carne fanno supporre una cottura a più step e a diverse temperature, segno di un’ottima gestione tecnica della materia prima. Il risultato è davvero degno di nota e si sposa in maniera eccelsa con il risotto.

Passiamo poi ai passatelli in brodo di gallina leggermente affumicato, crudo di gamberi e polvere di liquirizia. In breve, un piatto strepitoso. Il brodo è intenso, corroborante, con una distinta, lieve e per nulla invadente nota affumicata. I passatelli (a esser pignoli un filino troppo sodi) si amalgamano con un crudo di gamberi suadente, freschissimo, che si abbina alla perfezione con il brodo di gallina. La liquirizia c’è, ma è una lievissima nota aromatica, appena accennata, utile a dare il giusto kick al piatto. 

Di nuovo la consueta attesa e passiamo al secondo: crema di polenta, scopetòn, broccolo piccante, aria di prezzemolo e squame soffiate. Qui sfoderiamo la vera tradizione dei nonni: la sempre presente polenta abbinata con un pesce povero – come l’aringa o la sardella atlantica – conservato grazie al sale e all’affumicatura. Questo piatto tipico dei giorni di magro viene preso e rimaneggiato sapientemente giocando sulle consistenze: la polenta diventa una vellutata di mais, le squame dei croccanti popcorn. Il broccolo scottato rimane sodo e con un piacevolissimo profumo di aglio, mentre lo scopetòn è nascosto sotto a tutto il resto, pronto a sostenere il piatto con la sua spinta salina. Una rivisitazione davvero ben riuscita (peccato per l’aria di prezzemolo, non pervenuta).

Chiudiamo con il dolce: ganaches al cioccolato fondente e rum, sorbetto alla pera e pepe, spuma al vin brulè. Si lavora sui contrasti: diverse consistenze (ganache, salsa, sorbetto), diverse temperature (tiepido e freddo), diversi sapori (grasso, acido, dolce), con il tocco speziato del pepe. Il risultato è molto piacevole.

Il conto

La qualità c’è tutta e la cucina è una coccola per lo spirito, ma c’è un problema di rapporto costo/porzioni, in particolare sugli antipasti (ma anche i dolci non scherzano): per capirci, le due coscette di quaglia stanno a 14 euro. Tanto? Poco? Diciamo che siamo sui monti di Valdagno, non in centro a Milano (con tutti i costi annessi e connessi). Niente di irrisolvibile: un benvenuto della cucina in apertura, una selezione di pani particolari con dei burri aromatizzati e, volendo osare, una piccola pasticceria con il caffè – come fanno molti stellati, anche in zona – aiuterebbero a far passare l’attesa e a digerire meglio il conto. 

A proposito, l’amaro è offerto.

Tiriamo le somme

Al netto del rapporto prezzo/porzioni, facilmente risolvibile, la Chiesetta del Muccion è una piccola perla nel panorama culinario dell’alto vicentino. Tendiamo spesso a essere campanilisti quando si tratta di cucina, tanto che in Italia la tradizione francese è spesso sottovalutata (dagli avventori, non certo dagli chef). La Chiesetta del Muccion invece reinterpreta la tradizione attraverso un approccio basato sulla contaminazione, prendendo il meglio dall’esperienza oltralpe dello chef e offrendo ai commensali un’esperienza culinaria di gran livello: con alcuni piccoli aggiustamenti la Chiesetta del Muccion ha il potenziale per puntare davvero molto in alto.

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Classe '83, nato e cresciuto nel profondo nordest. Scrivo, tanto, di tutto. E cucino, tanto, di tutto. Sono dannatamente curioso, sempre alla frenetica ricerca di nuove tecniche da testare. Amo la tradizione, soprattutto quando viene stravolta: non c'è innovazione senza contaminazione.